Due giorni e mezzo di relazioni di esperti provenenti da diverse parti del mondo, cinque sessioni dedicate ai principali aspetti dell’ipertensione e alle patologie associate: sono i numeri del simposio internazionale “From arterial hypertension to heart disease”, che si è svolto recentemente a Napoli.
«La Società Europea di Cardiologia sta lavorando alle nuove linee guida sull’ipertensione, e questo simposio ha offerto ai cardiologi un’occasione di confronto e di attenzione sui principali aspetti della circolazione arteriosa e il suo impatto sulle malattie cardiovascolari» spiega Giovanni de Simone, Docente del Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali all’Università di Napoli Federico II e Presidente del simposio, organizzato dal Centro di Ricerca per l'Ipertensione Arteriosa dell’Università di Napoli Federico II e promosso dalla Fondazione Internazionale Menarini.
«L’ipertensione rappresenta la prima causa di morte prematura nel mondo e causa ogni anno 4,9 milioni di morti per infarto e 3,5 milioni di morti per ictus» avverte Brian Williams, professore di Medicina all’University College di Londra e presidente del Council on Hypertension della Società Europea di Cardiologia. «Non soltanto l’ipertensione provoca infarto e ictus, ma a causa della sua diffusione sono aumentate anche le conseguenze croniche, come insufficienza cardiaca, fibrillazione atriale, demenza. L’ipertensione è una condizione in crescita costante da quasi vent’anni e gli ipertesi nel 2025 saranno due miliardi nel mondo, soprattutto a causa dell’invecchiamento della popolazione: oggi le persone con ipertensione sotto i 50 anni d’età sono il 23 per cento, mentre dopo i 60 anni sono il 60 per cento».
Durante il simposio, per quanto riguarda la prevenzione ampio spazio è stato dato allo stile di vita, in particolare alla corretta alimentazione, che tra l’altro prevede una minore assunzione di sale.
«Senza dubbio il cloruro di sodio necessario al nostro organismo è già contenuto negli alimenti, ma in generale si può consigliare un consumo moderato di sale aggiunto come indicano le linee guida dell’American Heart Association, ovvero un cucchiaino da tè per un apporto mai superiore a 2-3 grammi al giorno» consiglia de Simone. «Nel documento “Global Action Plan for the prevention and control of noncommunicable diseases 2013-2020”, fra gli obiettivi di prevenzione, l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda agli Stati membri la riduzione del 30% nel consumo di sodio nella popolazione generale. Ridurre il consumo di sale contribuisce a prevenire non solo l’ipertensione arteriosa e le malattie cardiovascolari ad essa correlate, ma anche altre malattie quali gastrite, tumore dello stomaco, osteoporosi, insufficienza renale. Peraltro una riduzione graduale del consumo di sale favorisce anche una variazione del gusto con più facile adattamento ad alimenti meno saporiti».
Nonostante le indicazioni degli esperti, però, si continua a consumare troppo sale: la media in Italia è di 10-12 grammi al giorno. E il maggior consumo riguarda soprattutto le regioni del Sud e le persone meno istruite. «Secondo l’articolo “Geographic and socioeconomic variation of sodium and potassium intake in Italy: results from the Minisal-Gircsi programme”, pubblicato sul British Medical Journal, esiste un significativo gradiente Nord-Sud per il consumo di sale in Italia» conferma Francesco Cappuccio, Vicepresidente della Società Britannica di Ipertensione e Docente di Medicina Cardiovascolare all’Università di Warwick, Regno Unito. «Le persone che vivono nelle Regioni meridionali, in particolare Calabria, Basilicata e Puglia, hanno una maggiore escrezione di sodio che altrove, come Val d’Aosta e Trentino-Alto Adige. Inoltre il consumo di sale nel nostro Paese è significativamente più elevato nei gruppi sociali più svantaggiati: esiste infatti un’associazione lineare anche tra occupazione, livello di istruzione e consumo di sale. Le persone con titolo di studio elementare e scuole medie, se paragonate a quelle laureate, hanno un 5,9% in più di sodio nelle urine».
Cappuccio attribuisce parte della responsabilità di questo scorretto stile di vita alle aziende alimentari. «Un’elevata quantità di sale negli alimenti favorisce il profitto delle aziende, non la salute delle persone» dichiara Cappuccio. «Infatti aumenta la palatabilità, rendendo più appetibili anche i cibi di scarsa qualità. Inoltre l’aggiunta di sale aumenta nel cibo l’assorbimento dell’acqua, incrementando il peso del cibo e quindi il profitto. E poi i cibi salati provocano sete e quindi un maggior consumo di bevande, tra cui quelle gassate e quelle alcoliche, con conseguenze sulla salute e sull’aumento di peso».
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