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3rd International Summit on Ischemic Heart Disease - The Copernican Revolution in Ischemic Heart Diseases: the day after

Comunicato Stampa

Una rivoluzione copernicana nel trattamento delle cardiopatie

L’approccio tradizionale deve essere rivisto: la chiusura di una coronaria spesso non è la causa principale di una cardiopatia, ma soltanto il sintomo di un processo infiammatorio. La rivascolarizzazione può risolvere il problema provvisoriamente, ma non è in grado di proteggere il cuore da eventi trombociti successivi e nemmeno eliminare la malattia. Nei pazienti con ischemia cardiaca stabile l'aggiunta di angioplastica non apporta benefici significativi rispetto alla sola terapia medica. Piuttosto che alla rivascolarizazione può essere utile ricorrere a trattamenti farmacologici

Pisa, 27 giugno 2014 - Il trattamento della cardiopatia ischemica ha ottenuto progressi significativi negli ultimi anni. Sono aumentate le conoscenze riguardanti le cause dell'arteriosclerosi e le caratteristiche della cardiopatia ischemica. Di conseguenza le procedure di rivascolarizzazione coronarica sono aumentate in tutto il mondo e l'approccio corrente al trattamento della cardiopatia ischemica è ancora prevalentemente basato sulla supposizione che le ostruzioni coronariche siano la causa principale dell'ischemia miocardia. Gli esperti però stanno rivedendo la gestione delle patologie cardiache, come è evidenziato dal Terzo International Summit on Ischemic Heart Diseases dal titolo “The Copernican Revolution in Ischemic Heart Diseases: the day after”, organizzato a Pisa dalla Scuola di Medicina Cardiovascolare dell’Università di Pisa e dalla Fondazione Internazionale Menarini. «L’approccio tradizionale deve essere rivisto. La stenosi, cioè la chiusura dell'arteria a causa di un deposito di colesterolo, è la punta dell'iceberg di una malattia diffusa e probabilmente soltanto uno dei fattori che possono provocare una ischemia cardiaca» spiega Mario Marzilli, Professore di Malattie Apparato Cardiovascolare all’Università di Pisa e Presidente del meeting. «Si è capito che l'aterosclerosi, considerata una malattia da deposito di colesterolo, è in realtà un processo infiammatorio attivo, responsabile dell'evoluzione e delle complicazioni delle lesioni arteriose. Per esempio, negli ultimi anni è stata rivolta una particolare attenzione al microcircolo coronarico, che può contribuire all'insorgenza di ischemia miocardia anche in assenza di aterosclerosi. Con queste premesse, si può capire perché un intervento di rivascolarizzazione di una coronaria chiusa da una stenosi può risolvere provvisoriamente un'angina o un'ischemia, ma non è in grado di proteggere da eventi trombociti successivi e nemmeno eliminare la malattia, che non è limitata alla singola coronaria ma interessa diffusamente le arterie e il distretto microcircolatorio».
I dubbi sui rapporti diretti tra malattia coronarica e ischemia miocardia sono confermati da fatto che è frequente la prevalenza di sindromi ischemiche anche severe, come l'angina instabile e l'infarto miocardico, in pazienti con coronarie normali.
L'obiettivo degli specialisti, quindi, è di modificare la storia naturale della malattia e migliorarne la prognosi, con misure di prevenzione primaria e secondaria, l'utilizzo di farmaci con provata efficacia preventiva nei soggetti ad alto rischio, come statine, ACE-inibitori, anti-antagonisti, il ricorso appropriato alle terapie meccaniche e farmacologiche antischemiche, l’utilizzo di moderni farmaci antitrombotici.
«L'attuale terapia della cardiopatia ischemica è basata sul concetto che la stenosi coronarica è alla base di tutta la problematica fisiopatologica e clinica, dando luogo alle forme croniche di cardiopatia ischemica quando si tratta di una placca stabile, o determinando forme acute quando si tratta di una placca instabile» prosegue Marzilli. «Se le cose stessero effettivamente così, la rimozione della placca dovrebbe risolvere in maniera definitiva la cardiopatia ischemica, mentre la clinica evidenzia una serie di incongruenze che rimettono profondamente in discussione il concetto della stenosi come causa principale dell'ischemia miocardica».
Il punto di partenza è la modifica delle linee guida della Società Europea di Cardiologia sull’angina stabile e le linee guida sulla rivascolarizzazione del 2010 sempre della Società Europea di Cardiologia. Tali linee guida affrontano il tema della cardiopatia ischemica in modo semplicistico, utilizzando la rivascolarizzazione in caso di insuccesso nel controllo della prognosi dopo i trattamenti farmacologici con farmaci come beta bloccanti e calcio antagonisti. Viceversa, diversi studi evidenziano che in una parte dei casi la cardiopatia ischemica cronicizza, indipendentemente dalla soluzione terapeutica utilizzata. Uno dei primi e dei più significativi è stato lo studio Courage (N Engl J Med 2007; 356:1503-1516 April 12 2007), che chiarisce molto bene come il 38% dei pazienti dello studio, sia sottoposti a rivascolarizazione sia in terapia medica ottimale, vanno incontro a ricorrenza di angina.
Nello studio Courage (Clinical Outcomes Utilizing Revascularization and Aggressive Drug Evaluation), 2287 pazienti con ischemia cardiaca stabile sono stati divisi in due gruppi, il primo trattato con rivascolarizzazione coronarica tramite angioplastica associata a terapia medica, e il secondo soltanto con terapia medica. «Dopo quasi cinque anni non sono state osservate differenze tra i due gruppi nell'incidenza di mortalità totale e di infarto non fatale, per cui nei pazienti con ischemia cardiaca stabile l'aggiunta di angioplastica non apporta benefici significativi rispetto alla sola terapia medica» aggiunge Marzilli.
Quindi, dove la terapia tradizionale non controlli la patologia, più che alla rivascolarizazione può essere utile ricorrere a trattamenti farmacologici, come la  ranolazina, un inibitore della corrente lenta del sodio. La molecola consente di migliorare le capacità bioelettriche e funzionali quando l'ischemia progressivamente fa perdere capacità al cuore.
Lo studio Merlin Timi 36 (JAMA. 2007 Apr 25;297(16):1775-83.), disegnato su 6.500 pazienti acuti trattati con ranolazina, ha mostrato una riduzione del 22% nei casi di ischemia ricorrente e del 14% per morte cardiovascolare, infarto e rivascolarizzazione.

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