Trauma cranico: aumentare la sopravvivenza
e ridurre la disabilità
Quali sono i fattori predittivi precoci che gli specialisti valutano riguardo i possibili
danni cerebrali dopo il trauma
Negli ultimi decenni la mortalità è stata ridotta del 12 per cento ma le prognosi
favorevoli sono aumentate soltanto del 6 per cento
BERGAMO, 29 NOVEMBRE 2017 - Il soccorso, l’ospedalizzazione e la riabilitazione del
paziente con trauma cranico sono stati il tema principale del simposio internazionale
“Critical issues in the management of polytrauma patient with traumatic brain injury” che si
è svolto recentemente a Bergamo. Il simposio, organizzato dalla Fondazione per la
Ricerca Ospedale Maggiore (FROM) di Bergamo e dalla ASST Papa Giovanni XXIII di
Bergamo, e promosso dalla Fondazione Internazionale Menarini, ha visto la
partecipazione dei massimi esperti internazionali che si sono confrontati sulle principali
tematiche riguardanti i pazienti con trauma cranico, dall’importanza cruciale dell’assistenza
nelle prime ore dopo l’incidente, alle nuove opportunità terapeutiche e chirurgiche.
«I traumi al cervello e le lesioni di più organi rappresentano la principale causa di morte e
disabilità nei giovani» spiega Tiziano Barbui, Direttore Scientifico della Fondazione per la
Ricerca Ospedale Maggiore (FROM) di Bergamo. «Negli ultimi anni i progressi nel
soccorso pre-ospedale oltre alle terapie intensive e chirurgiche hanno ridotto la mortalità
per incidenti, ma la situazione resta preoccupante. La strategia ideale per ottenere i
migliori risultati probabilmente consiste nell’intervenire su diversi fronti: dal soccorso al
paziente sulla scena dell’incidente fino alla riabilitazione, lo studio e l’utilizzo di nuove
tecniche e procedure d’urgenza, l’aggiornamento dei team di pronto intervento e nella
gestione del paziente in ospedale. Per questo prima di tutto dobbiamo considerare
cruciale l’idea di “contaminazione culturale”. Dobbiamo cioè fare in modo che persone con
differenti specializzazioni e ruoli imparino a lavorare in team, a condividere esperienze
diverse, discutere e rivedere i casi difficili, imparare dalla ricerca ma anche dal lavoro sul
campo».
Soltanto in questo modo è possibile ridurre le conseguenze del trauma, che rappresenta
uno dei principali problemi sanitari. «È la sesta causa di morte nel mondo con oltre cinque
milioni di morti l’anno, di cui la metà circa sono persone tra i 14 e i 45 anni d’età. È la
quinta causa di disabilità e la prima per quanto riguarda la perdita di anni di capacità
lavorativa» avverte Matteo Mondini, dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche "Mario Negri”
di Bergamo. «Due azioni potrebbero essere avviate per ridurre l’impatto sulla popolazione:
la prevenzione del trauma e l’ottimizzazione del trattamento. Per fare ciò sono utili una
raccolta dei dati e una rigorosa e scientifica analisi delle informazioni raccolte. Purtroppo si
tratta di dati che non sono disponibili in Italia, per la mancanza di un registro dei traumi».
Nel nostro Paese si contano infatti Centri di terapia intensiva di assoluta eccellenza, ma
restano criticità soprattutto per quanto riguarda l’organizzazione.
«Ci sono differenze tra i centri di traumatologia italiani e di altri paesi» commenta Osvaldo
Chiara, Direttore della Chirurgia generale trauma team dell’Ospedale Niguarda di MIlano.
«Per esempio in alcuni paesi europei o in Canada vengono ammesse ai centri di
traumatologia le persone più gravi e con minore probabilità di sopravvivenza. Questo
perché il sistema di valutazione pre-ospedaliero è più selettivo. Le persone con traumi
maggiori sono centralizzate nei centri di traumatologia più specializzati, mentre i pazienti
meno gravi sono ricoverati in altri ospedali. In regioni italiane che sono comunque
all’avanguardia, come la Lombardia, le persone con trauma sono invece distribuite in molti
ospedali. Nell’ultimo anno soltanto il 37% dei traumi severi sono stati ammessi nei centri di
traumatologia di alta specializzazione. Probabilmente sei centri di traumatologia di alta
specializzazione e 24 centri di traumatologia locali sono probabilmente troppi per un
bacino d’utenza di dieci milioni di abitanti, come è la Lombardia. Per cui una
riorganizzazione del sistema è auspicabile per incrementare la centralizzazione dei traumi
maggiori in pochi centri di traumatologia di alta specializzazione».
Un altro tema di grande attualità riguarda la qualità di vita delle persone colpite da un
trauma cranico una volta dimesse dall’ospedale.
«Negli ultimi decenni i progressi nel soccorso pre-ospedaliero e nelle cure intensive hanno
ridotto la mortalità dei pazienti con trauma cranico del 12 per cento ma le prognosi
favorevoli sono aumentate soltanto del 6 per cento» sottolinea Francesco Biroli,
ricercatore in neurochirurgia alla Fondazione per la Ricerca Ospedale Maggiore (FROM)
di Bergamo. «Questi dati suggeriscono che molti dei pazienti salvati grazie ai trattamenti
intensivi restano disabili o in stato vegetativo come conseguenza del trauma. In questa
prospettiva, sapere il destino di un paziente colpito da un trauma cranico è fondamentale.
Per fare una prima valutazione si valutano alcuni fattori predittivi precoci di outcome
positivo o meno: l’età del paziente, la gravità della compromissione neurologica al
ricovero, la presenza di ipossia, ipotensione e reazione pupillare patologica, la presenza di
altri traumi oltre al cranio che aggravano la prognosi e infine contano le condizionino
generali del paziente: per esempio la prognosi è peggiore se è diabetico o iperteso. In
questa prima fase acuta le previsioni poco attendibili e indicano più che altro la gravità del
trauma. In terapia intensiva il paziente viene stabilizzato e si ottengono informazioni più
accurate della lesione cerebrale grazie a esami come la Tac e la risonanza magnetica. Alla
fine del periodo acuto, quando viene dimesso dalla terapia intensiva, la valutazione
definitiva serve a programmare il trattamento riabilitativo».